Al servizio della storia. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II


di Rosario Giuè
MARINEO. Ai lettori proponiamo un articolo di Rosario Giuè pubblicato sul numero in edicola di "Mosaico di pace", rivista mensile diretta da Alex Zanotelli, promossa da Pax Christi e fondata da don Tonino Bello.
A cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II si può lavorare per una nuova responsabilità della Chiesa italiana nel Paese?
Da tempo la credibilità della Chiesa italiana non trova molta accoglienza nell’opinione pubblica, specialmente tra i giovani. Provate a parlare con i giovani e chiedete loro cosa pensano della Chiesa. Sempre più spesso l’istituzione ecclesiale è vista da molti come un potere temporale, un potere mondano come tanti altri. E se nel corpo ecclesiale vi sono numerosissimi esempi (anche tra i vescovi) di dedizione e di apertura agli altri e alle altre, di disinteressato impegno, di testimonianza con povertà di mezzi. Se nei Paesi e nelle città vi sono uomini e donne che si spendono ogni giorno al servizio della dignità delle persone, spinti dalla causa del Vangelo; se nelle città numerosi cattolici sono impegnati nella ricerca di verità e giustizia; se non sono poche le comunità cristiane che cercano un nuovo linguaggio adatto ai tempi mutati e alle nuove sensibilità e propongono un’essenza della fede liberata da incrostazioni culturali e storiche non più presentabili; se tutto ciò è vero, contemporaneamente a molti l’istituzione ecclesiale, in Italia, appare come un pachiderma che non sposa la causa dell’uomo ma la causa di sé stessa. Per non poche persone sensibili e attente alla presenza dei cristiani nel Paese l’istituzione ecclesiale appare, dispiace rilevarlo, non come chi si schiera dalla parte dell’umano in cammino, ma come chi si schiera dalla parte di se stessa. A costoro l’istituzione ecclesiastica italiana appare come se vivesse in un altro mondo, un mondo avulso dalla corrente della vita di tutti i giorni. Sembra muta quando dovrebbe parlare, e molto agitata quando non dovrebbe esserlo.
Molti uomini e donne di buona volontà (anche vescovi) nella base ecclesiale percepiscono questo scollamento tra essere Chiesa e società in cammino, percepiscono questa rottura tra fede e cultura. Ma si sentono impotenti a cambiare la situazione. Vedono che il loro sforzo di dare volto a una Chiesa più aderente ai bisogni e al cuore delle persone di oggi, il loro tentativo di prendere sul serio le domande del nostro tempo per una rinnovata testimonianza del Vangelo nel mondo si perdono e sono vanificati e come soffocati dalla logica istituzionale, spesso orientata verso un’altra direzione e presa da altre preoccupazioni.
DIACONIA
Non sono pochi, sul piano politico, i nostalgici dei tempi della Democrazia Cristiana, i nostalgici, sul piano sociale, della società uniformemente cattolica. Non mancano coloro, sul piano ecclesiologico, che pensano che il Vaticano II, inaugurato cinquant’anni or sono dal sant’uomo Giovanni XXIII come una chance per la Chiesa a fare un “balzo innanzi”, non sia stata un’esperienza liberante dello Spirito. Per costoro il Vaticano II non deve costituire per la Chiesa un orientamento fecondo verso una continua riforma. In effetti, a diversi livelli, non solo nella Chiesa italiana, c’è chi è impegnato a mettere tra parentesi lo spirito del Concilio dell’apertura al tempo presente, dell’essere attenti ai segni dei tempi, di avere sensibilità per il diverso (libertà di coscienza e libertà religiosa). Alcuni, se potessero, ritornerebbero alla celebrazione della messa in latino obbligatoria, se non nutrissero il dubbio di apparire fuori dalla storia e di trovare una forte opposizione nel popolo di Dio! Non manca chi si infastidisce se sente parlare della necessità della povertà per la Chiesa, se sente chiedere che la Chiesa deve rinunciare ai privilegi, se sente, per esempio, parlare del dovere di pagare l’ICI quando si possiedono beni come gli altri contribuenti. Vi è chi rimpiange un cristianesimo sostanzialmente uniforme e autoritario, anche tra il giovane clero, o non ha mai voluto assaporare il pluralismo teologico e grida all’eresia se sente parlare del bisogno di nuove forme di essere Chiesa, come frutto degli studi biblici e teologici del post-Concilio. Ancora oggi vi sono dei preti che possono dire in riferimento al confratello: “Io sto con il Papa”, per dire “Tu no, tu non sei nel vero, io sì”. La cosa triste di tutta questa situazione di nostalgia di una “cristianità perduta” è che si rischia di smarrire l’essenziale: l’umano e la stessa possibilità storica di annuncio del Vangelo. La cosa che non si considera è che, su questa strada, si dimentica il fatto che i cristiani e la Chiesa sono chiamati a servire (diaconia), non in astratto e ideologicamente, ma dentro il cammino storico. Su questa strada si chiude la possibilità dell’annuncio credibile della causa di Gesù. Non ci si rende conto che la vecchia strategia di difesa dei “diritti di Dio” (dunque, della Chiesa) ha perso di senso, perché oggi in un mutato contesto storico-politico, “i diritti di Dio si manifestano come diritti dell’uomo” (Ernesto Balducci).
ESSERE CHIESA OGGI
Si può uscire da questa situazione? Per essere Chiesa oggi non c’è bisogno di una neo-ideologia cattolica, non c’è bisogno di un serrare le file confessionale, bensì occorre trovare le mediazioni comuni per servire al meglio le persone dentro la storia (laicamente). Ciò che serve è concentrarsi sulla radicalità evangelica. È questa testimonianza che si aspetta chi sta fuori dalle sacrestie. Le difese di ufficio, in una società democratica e trasparente, sono colte con sarcasmo e sono percepite come segno di un mancato rispetto per le domande che salgono dagli altri e dalle altre.
Nel XXI secolo, in una società pienamente pluralista e secolarizzata, liberata dalla necessità di vincoli di appartenenza, l’essere cristiani è un’esperienza che si vive gioiosamente nella società senza il bisogno di dover necessariamente rispondere a qualcuno. Come Chiesa, tuttavia, se si vuole esercitare il proprio ministero di essere davvero di aiuto al cammino di fede indicato da Gesù, allora bisogna fare una virata decisa nella propria rotta.
Partire, dunque, dalla realtà e dalle cose, dai mutamenti della società, e imparare dagli altri e dalle altre. È così che si può essere cristiani e Chiesa nel nostro tempo. Non a partire da principi o norme elaborate astrattamente dall’alto. L’essere cristiani si gioca nella fatica di cercare e trovare con persone di diverso orientamento etico o religioso un consenso minimo su valori, norme e comportamenti per stare insieme per fare costruire insieme la città, senza l’alterigia di avere già il possesso del bene e della verità. È così che si può riprovare a essere Chiesa per gli altri, nello spirito di Gesù di Nazareth.
L’essere cristiani si mostra nella costruzione di una convivenza pluralista, possibilmente a partire dai più poveri e dagli esclusi. L’essere cristiani, anche in politica,oggi si gioca nel trovare la strada comune in compagnia di altri uomini e donne che tenga conto dello sviluppo storico nelle istanze etiche e sociali. Oggi, in una società democratica, se si vuole contribuire a testimoniare e affermare i valori cristiani, lo si può e lo si deve fare solo nel contesto dei valori umani comuni.
Ma di queste cose si può parlare insieme, senza essere accusati di non amare la Chiesa? Se ne può parlare pubblicamente in assemblee ecclesiali, senza essere accusati di non avere rispetto per l’autorità ecclesiale? Se ne può parlare, ascoltandosi gli
uni gli altri, senza escludere qualcuno o qualcuna?
Si può pensare a una grande assemblea ecclesiale italiana? Un’assemblea libera, pluralista, dove si è disposti ad ascoltare anche le voci critiche? Un’assemblea indetta,certo, dai vertici ecclesiali italiani, simile a quella organizzata a Roma nel 1976 e preparata da mons. Enrico Bartoletti insieme a padre Bartolomeo Sorge e a Giuseppe Lazzati per il convegno “Evangelizzazione e Promozione umana”? O simile a quella del 1985 su “Riconciliazione e comunità cristiana” sotto la guida dei cardinali Ballestrero e Martini?
C’è necessità, a cinquant’anni dall’apertura del Concilio, di trovarsi in Italia come Chiesa che conversa, che si sa ascoltare, non una assemblea di routine. C’è necessità di un atto creativo e costituente.
Sì, di un’assemblea costituente per la Chiesa italiana.